Perché quando un marchio diventa storia e un pezzo di design si fa linguaggio, allora il prodotto è già un’icona. Andatelo a chiedere alle tribù, quelle strane galassie di consumatori che fanno squadra intorno a una passione: loro inforcano una Vespa, non vanno in scooter. Cavalcano una “rossa” di Borgo Panigale, mica una moto. Dòmano un cavallino rampante, che è qualcosa di più di un bolide. Oppure accendono il loro iPad (non un banale tablet) e “photoshoppano” lo scatto digitale, che è cosa diversa dall’utilizzare un softwarino. Il prodotto si fa essenza della vita e spesso il gusto precede l’uso, la passione supera la razionalità e a volte persino il buonsenso.

I motori ben si prestano al duello fede-ragione alimentato dal marketing: Ferrari, Vespa, Ducati, Guzzi, Bmw, Harley Davidson, Maggiolino, Alfa Romeo, Fiat 500 sono solo alcuni dei brand più conosciuti che creano comunità (non solo) virtuali. Certo, il prodotto deve avere caratteristiche d’eccellenza ma la qualità, da sola, non basta a creare il mito.

E allora ci sono le “fanatiche” del Folletto e del Bimby, capaci di pagare un premium price notevolissimo alla tedesca Vorwerk rispetto a un aspirapolvere o a un “robot” da cucina normali.

Senza dimenticare, solo per citare qualche altro esempio, la pasta Barilla, il caffè Illy, i jeans di Armani, le felpe “che odorano di buono” di Abercrombie & Fitch, i gioielli di Dodo, i capi di Gucci, Prada e naturalmente la Nutella, guai a chi la tocca. Perché è bastato che dal parlamento europeo qualcuno la considerasse poco salutare, per far levare in sua difesa gli scudi di Facebook. Ed è così che la tribù ha dato vita a un “gruppo” virtuale, intitolato “Giù le mani dalla nostra Nutella”, al quale si sono iscritte 7 mila persone.

E poi la Apple, da molti considerata una religione, una bandiera ideologica, l’icona dell’innovazione postmoderna tout court, con il suo sacerdote Steve Jobs. Pensate alle code chilometriche per acquistare l’iPad e al rito dell’apertura della scatola di un prodotto della Mela e a quell’orgoglio corredato dal solito ben noto complesso di superiorità che, in fondo, ogni possessore di Mac prova nei confronti di chi usa lo «sporco Winzozz», come spiega Alice, una mac-dipendente che lo scorso aprile è volata in America (quasi) esclusivamente per accaparrarsi anzitempo l’iPad.

Ma che cos’è un marchio, come si crea e si “nutre”? Il guru del marketing, l’americano Kevin Keller, sostiene che per costruire un brand ci vuole un mix di arte e scienza. «Il ciclo evolutivo di una marca di successo segue di norma quattro stadi – dice Bruno Busacca, ordinario di marketing alla Bocconi -. Si parte dalla fase di accreditamento verso il pubblico, segue la fase di accumulazione di contatti e credibilità, poi l’ampliamento della base utenti e infine quella che noi chiamiamo attivazione, cioè la vera e propria esplosione del brand, che migra in settori diversi».

Processi che conoscono bene alla Ducati, i cui fan possono arrivare a compiere gesti spiegabili più con il cuore che con la ragione. Come Franco, ducatista da sempre, che si è fatto tatuare due loghi dell’azienda emiliana: sul braccio destro quello vecchio, prima che Borgo Panigale lo cambiasse, sul sinistro il nuovo, aggiornato dall’azienda nel 2008. La Ducati, che nel mondo ha 223 club, uno persino in Nuova Caledonia, ha appena concluso lo scorso 13 giugno a Misano Adriatico la sesta edizione del World Ducati Week (Wdw), il raduno internazionale dei fan delle rosse. Nessun osservatore esterno li potrà mai certificare al 100%, ma i numeri emersi da questa kermesse sono da capogiro: 60mila persone presenti (secondo le stime) in quattro giorni provenienti da 28 nazioni, compresi Gabon e Nepal; 21mila piadine consumate, 1,2 tonnellate di salsiccia, 38 milioni di chilometri percorsi dai ducatisti per raggiungere Misano. Ma soprattutto quasi mezzo milione di euro di ricavi generati per il Ducati Store, che ha venduto occhiali, scarpe giubbotti, oltre ai 6 milioni di euro di indotto generati dai fan in riviera in sole 96 ore.

«Il marchio deve seguire in maniera talebana alcuni valori forti – racconta Diego Sgorbati, direttore marketing della Ducati – che per noi sono autenticità, artigianalità e italianità. E poi che due cilindri sono meglio di quattro o che il telaio a traliccio è meglio di un banalotto scatolato in alluminio».
«Questi brand non sono degli status symbol ma degli style symbol – spiega Italo Piccoli, professore di sociologia dei consumi presso l’Università Cattolica di Milano – non esprimono la classe sociale ma il farsi stile della persona».

Un brand, però, può anche essere riportato in auge, come hanno fatto alla Fiat con la 500. In pochi ricordano che l’operazione, all’inizio degli anni Novanta, era già stata tentata dal Lingotto ma su presupposti diversi. Perché la Cinquecento del 1992, lo “scatolino” con i fanali spioventi, non ha proprio niente a che vedere con la 500 oggi sul mercato. «Siamo andati a riprendere quei valori che avevano sancito il successo della prima 500 – rivela Rino Drogo, responsabile per la Fiat di tutte le attività di brand promotion e delle sponsorizzazioni – che erano semplicità, praticità, simpatia e leggerezza. Ricordando che la primissima 500 non ebbe un riscontro eccezionale perché era troppo piccola per gli standard dimensionali dell’epoca e che invece decollò quando iniziò a imporsi come seconda auto, destinata ai giovani». E poi sono arrivate le felpe di Lapo con la scritta Fiat, a rivendicare un orgoglio aziendale che negli anni passati, nell’era pre-Marchionne, sembrava essere stato perso.

Oggi le tribù si raccolgono in quelle agorà virtuali che sono i social network. Piaggio è una delle aziende che su questo tema ha scommesso di più, tanto che su Facebook la home page ufficiale dei vespisti ha quasi 280mila fan, con circa 500 iscrizioni ogni giorno. Un’azienda, quella di Pontedera, che utilizza il medium della rete con astuzia. Ma non solo. «Youtube è un altro canale formidabile – sostiene Francesco Delzio della Piaggio – visto che i video della nostra Aprilia Rsv4 hanno avuto 100mila visualizzazioni in pochi mesi». E tanto è mastodontica, per tornare a un prodotto storico, la comunità di appassionati della vecchia Vespa, che il gruppo toscano ha creato su internet un vero e proprio sito di pezzi di ricambio costruiti ad hoc per gli scooter di tutte le annate, con un catalogo consultabile online (www.vespavintage.com).
Ma un brand di successo non è solo il passato che torna. È piuttosto la punta più visibile di un’innovazione che si fa progetto mettendo d’accordo la testa e il cuore.

di Daniele Lepido