USA e le elezioni. Intervista a Giorgio De Carlo, direttore dell’istituto Quaeris, che sta lavorando alla campagna in corso negli Quaeris. Mai così incerta

Balcone con vista sulle incertissime elezioni americane. Dove? Nella trevigianissima Breda di Piave. Qui ha sede, infatti, l’istituto Quaeris, che – dopo aver condotto sondaggi per le elezioni di mezza Europa, dall’Albania alla Romania, dalla Croazia alla Moldavia – dallo scorso anno è impegnato a seguire, in stretto raccordo con alcuni “spin doctor” (cioè gli strateghi di campagna elettorale) l’incertissima campagna elettorale negli USA che martedì 6 novembre decreterà il vincitore tra Barack Obama e Mitt Romney. Quaeris, che a seconda degli Stati lavora sia per i Democratici che per i Repubblicani, in queste ore sta monitorando alcuni dei cosiddetti Stati chiave, quelli in bilico e dunque decisivi per determinare il vincitore. Come è noto, infatti, i cittadini americani – tecnicamente – non eleggono direttamente il Presidente ma dei Grandi elettori, Stato per Stato. Il candidato che vince in uno Stato, si prende tutti i relativi grandi elettori. E’ possibile (accadde nel 2000 nella sfida Bush-Gore e potrebbe succedere anche martedì prossimo) che il candidato che in assoluto ha preso più voti prenda in realtà un minor numero di grandi elettori e perda dunque le elezioni. Quaeris inoltre sta seguendo la campagna elettorale della repubblicana Linda Mac Mahon per il seggio senatoriale del Connecticut. Al direttore di Quaeris, Giorgio De Carlo, abbiamo chiesto di spiegare “i segreti” di questo “election day” targato USA.

Tra Obama e Romney siamo davvero testa a testa?

Sì, impossibile dire chi vincerà. Molto dipenderà dal risultato di alcuni Stati. Molti parlano dell’Ohio, dove sembra in vantaggio Obama. Da quello che vedo decisivi saranno altri due Stati di cui si parla meno: il Wisconsin e la Virginia. Se Romney vuole diventare presidente deve vincere in entrambi gli Stati, che assegnano rispettivamente 10 e 13 grandi elettori.

Tre mesi fa la vittoria di Obama sembrava scontata… Poi cosa è successo?

A dire la verità io ho sempre pensato che l’esito fosse incerto. Già lo scorso anno, quando abbiamo iniziato a lavorare in Connecticut, abbiamo intuito che la figura di Obama presentava diversi punti deboli, sia sull’economia che sulla sanità. L’americano medio non ha capito la sua riforma. Man mano che la data si avvicinava sono emerse le due Americhe contrapposte, che stanno dietro ai due candidati. Poi, dobbiamo anche dire che spesso i sondaggi pubblicati non sono quelli che hanno in mano i candidati.

Cosa intende dire?

Spesso dietro alla pubblicazione ci sono importanti gruppi editoriali, non sempre imparziali.

Ma perché un sondaggio fatto a Breda di Piave dovrebbe essere migliore di uno fatto negli USA?

Intanto è vero che i sondaggi sono fatti qui, con telefonate di madre lingua, ma che partono tutte dal Veneto. I nostri segreti sono due: il fatto che proponiamo domande aperte e non chiuse. Facciamo più fatica a raccogliere persone disponibili a parlare, ma i questionari sono più affidabili. E poi il punto di vista esterno. Essere “fuori dalla mischia” può essere un vantaggio, anche perché i maggiori istituti finiscono con il guardarsi l’uno con l’altro, e qualche volta tendono a fare “cartello tra loro”, correggendo i dati che sembrano più strani o sorprendenti.

Torniamo alle elezioni negli USA. Su cosa si gioca la campagna in questi giorni?

Come “sentiment” diffuso, Romney sembra in lieve vantaggio, ma questo non significa che vincerà. Quella americana è una democrazia particolare: abbiamo parlato degli Stati chiave, poi l’astensionismo è alto, per votare bisogna iscriversi… Obama, poi, è “messo meglio” rispetto a dieci giorni fa. Tutto può essere decisivo: l’uragano Sandy che si è abbattuto su New York, ad esempio. Non solo per gli effetti metereologici, ma anche perché a causa del maltempo è stato rinviato il rapporto sull’occupazione, previsto per il 2 novembre. Era attesissimo, ora i risultati sono rinviati e forse li sapremo dopo le elezioni. C’era attesa anche per il rapporto sull’economia. Obama ha espresso soddisfazione per l’aumento del 2% del Pil, ma non ha detto che il risultato dipende per un terzo dall’abnorme aumento delle spese militari. Puntare i riflettori su questo aspetto non conviene né a Obama né a Romney e dunque anche i dati sull’economia finiscono per non essere decisivi.

E i dibattiti televisivi? Negli USA sono più importanti che da noi…

Sì, ma influiscono in modo decisivo solo se si verificano tre condizioni: un pesante svarione – e qui nessuno lo ha fatto -, il fatto che un candidato sia “sempre messo sotto” dall’altro o che un candidato si presenti con uno stile dimesso. Certo Obama non è apparso in forma nel primo dibattito, ma appunto nessuna di queste condizioni si è contemporaneamente verificata.

Altro aspetto che in America conta è quello dei costi delle candidature…

Sì, i candidati spendono tantissimo. La repubblicana Mac Mahon, che seguo nelle elezioni senatoriali del Connecticut, un piccolo Stato con tre milioni di abitanti, 4 anni fa ha speso 50 milioni di dollari, quest’anno al momento è ferma al 12. Figurarsi cosa spendono i candidati alla presidenza… Entrambi hanno raccolto circa un miliardo di dollari di donazioni a testa. Obama è in lieve vantaggio ma soprattutto le donazioni sono fatte in maggioranza alla sua campagna elettorale, mentre Romney gode di fondi dati soprattutto al suo partito. Se fosse stato in grave svantaggio, i fondi sarebbero stati dirottati per le campagne del Senato e della Camera dei rappresentanti.

In definitiva, in che cosa Obama e Romney sono diversi?

Entrambi sono portavoce del “sogno americano”, ma i punti di partenza sono diversi: l’America di Romney è quella dell’uomo che “si fa da solo”, quella di Obama è l’America che dà a tutti la propria opportunità, enfatizzando i vincoli comunitari. Quale America vincerà? Pochi giorni e lo sapremo.

Fonte: Bruno Desidera, La Vita Del Popolo, Mercoledì 31 Ottobre 2012

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