“I sondaggi, quelli veri, sono come i peccati: si fanno ma non si svelano”. Non sono i sondaggisti, insomma a dover salire sul banco degli imputati, afferma Giorgio De Carlo, sociologo e direttore generale dell’istituto Quaeris, che da anni sforna ricerche e sondaggi in occasione delle campagne elettorali non solo in Italia, ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Da settimane leggevamo di una Hillary Clinton lanciata verso la vittoria, premiata da quasi tutte le rilevazioni. E così è stato anche per i primi exit poll durante la notte elettorale. Poi, invece, la sorprendente vittoria di Trump. “Sorprendente non direi, prosegue De Carlo. Non per me, in ogni caso. Solitamente i sondaggi più attendibili i politici non li diffondono, li tengono per sé. E comunque ci sono giornali, come il Los Angeles Times, che da settimane davano Trump come possibile vincitore. Grazie a sondaggi  costosi e raffinati, basati su campioni di 3mila persone e su domande aperte, che riescono a tastare il polso alla gente su molte questioni”. De Carlo parla per esperienza. Quattro anni fa il suo Istituto aveva lavorato per le elezioni americane, proprio cercando di elaborare un sistema innovativo di rilevazione dell’opinione pubblica (ne avevamo ampiamente parlato sul nostro giornale). Prosegue il direttore di Quaeris: “Bisogna anche dire che negli Stati Uniti è complesso parlare di sondaggi: viene rilevata l’opinione della cittadinanza, che non coincide con gli elettori, dato che per votare ci si iscrive alle liste. E poi c’è il sistema dei Grandi elettori, coloro che tecnicamente danno poi il voto al nuovo Presidente”.

De Carlo quest’anno non ha lavorato direttamente nella campagna elettorale americana. Ma ne ha naturalmente seguito l’andamento con attenzione e si è fatto qualche idea di cosa è successo: “Abbiamo visto la replica di quanto è avvenuto qualche mese fa in occasione delle primarie repubblicane. Trump è stato dapprima sottovalutato, poi ha avuto tutti contro. I suoi meriti sono stati quelli di avere una grande fiducia in se stesso e di ascoltare la gente, battendo gli Stati palmo a palmo, soprattutto quelli industriali del Midwest, come l’Ohio e il Michigan, decisivi per la vittoria. Ha fatto percepire alla gente il messaggio «Noi faremo grande l’America»”.

Certo, “anche se le sue prime dichiarazioni sono state meno boriose rispetto alla campagna elettorale, resta un personaggio discutibilissimo e privo di qualsiasi esperienza politica. La speranza è che il Partito repubblicano, che controlla sia il Congresso che il Senato, concordi con lui un’ottima squadra. La Clinton aveva sicuramente uno staff di prim’ordine, ma a mio avviso ha sbagliato l’approccio alla campagna elettorale, tutta giocata contro l’avversario. E poi lei parlava soprattutto dei massimi sistemi, Trump ascoltava e dava importanza a temi pratici, magari non sempre corretti. Con la Clinton viene sconfitto anche un certo modo di fare propaganda politica”. Quello fatto di “appoggi da parte di attori e cantanti”, ma sempre una propaganda fatta dall’alto verso il basso.

Quali ora i possibili effetti per l’Europa e per l’Italia? “Per certi aspetti questo voto è la continuazione della Brexit: vengono scardinate idee consolidate, si dà scacco matto alle élite, le gente si mostra scettica sulle grandi visioni e si concentra sulle cose pratiche, sul territorio, senza ascoltare gli opinion leader”. Sull’Italia, poi, c’è un’incognita: “Renzi è andato negli Stati Uniti a fare campagna per la Clinton. E’ stato l’unico leader occidentale a pronunciarsi apertamente per Hillary. Vedremo se questo peserà nei futuri rapporti”.

 

di Bruno Desidera

 

Articolo pubblicato su “La Vita del Popolo” il 9/11/2016